Biologi per la Scienza
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Dottorando in Neurobiologia presso la Ludwig Maximilian University a Monaco di Baviera, studia come trasformare gli astrociti in neuroni, con possibili applicazioni in svariate patologie neurodegenerative.

Chi sei e cosa fai?

Mi chiamo Matteo Puglisi e sono al terzo anno del mio dottorato in Neurobiologia presso la Ludwig Maximilian University di Monaco. 

Cosa studi di preciso?

Aspetta, quanto in profondità devo andare da 0 a 10? “0” un bambino dell’asilo, “10” un mio collega.

Facciamo il livello di uno che ha una vaga idea di cos’è il sistema nervoso, tipo quando c’hai la verifica alle superiori ma non hai studiato proprio benissimo.

Ok, allora il mio è un dottorato in medicina rigenerativa con l’obiettivo di creare nuove terapie cellulari per rimpiazzare i neuroni che vengono persi nelle malattie neurodegenerative o nei traumi cerebrali. Tradizionalmente questa cosa si faceva coi trapianti, che hanno svariati problemi tra cui l’incompatibilità e la necessità di materiale fetale per la ricerca.

Quello che faccio io si chiama “direct reprogramming”, e praticamente tu prendi le cellule che stanno già nel cervello e che non sono neuroni e le riprogrammi facendogli cambiare identità.

Parliamo degli astrociti?

Esatto. Il mio dottorato in particolare è sul reprogramming degli astrociti in neuroni.
Gli astrociti son fighi perché sono quelli che quando hai fenomeni di neurodegenerazione si attivano (astrociti reattivi) e formano una sorta di cicatrice nel tessuto nervoso, cosa che fa più problemi che altro. L’idea del reprogramming quindi è quella non solo di rimuovere queste cellule che fanno danno, ma anche di ripristinare i neuroni che erano stati persi.

Ma c’entra qualcosa con le staminali?

No. Cioè, alla lontana sì, ma di fatto noi consideriamo gli astrociti reattivi come una sorta di cellula non staminale che però riacquisisce alcune caratteristiche di staminalità.

Quindi una sorta di transdifferenziamento?

Esatto, si chiama proprio così. Si dice “transdifferenziamento” perché non si passa per un intermezzo staminale tra l’astrocita e il neurone. In un approccio più classico si prenderebbe l’astrocita, lo si riprogrammerebbe prima a cellula staminale e poi si differenzierebbe questa in neurone. Noi ed altri laboratori, invece passiamo direttamente da astrocita a neurone.

Che tipo di studi fate per fare questa cosa?

Io lavoro in vivo, su modelli murini di danno cerebrale. Fondamentalmente per riprogrammare gli astrociti esprimiamo in maniera sintetica al loro interno dei fattori neurogenici, che sono delle proteine normalmente espresse durante lo sviluppo del sistema nervoso centrale.

Noi li riesprimiamo nel cervello adulto all’interno degli astrociti, ed è una cosa nota che la riespressione di questi fattori embrionali nell’adulto riesca a riprogrammare gli astrociti.
Il tipo di fattori che esprimiamo però non posso dirtelo, perché è ancora top secret.

Che differenza c’è tra un fattore neurotrofico e un fattore neurogenico?

Allora un fattore neurotrofico è un fattore che promuove la crescita e la sopravvivenza dei neuroni già formati. Fondamentalmente sono tutte quelle molecole tipo l’NGF, che è la molecola scoperta dalla Montalcini e che le è valsa il Nobel, che sono secrete e che si legano ai recettori di membrana promuovendo la sopravvivenza e la maturazione dei neuroni.

I fattori neurogenici sono invece dei fattori di trascrizione che si attivano nel nucleo di una cellula staminale neuronale e innescano la cascata di geni che va a dire “ok, questa cellula diventerà effettivamente un neurone”.

Cosa usate per portare i fattori neurogenici dentro il nucleo delle cellule?

Noi usiamo dei virus adeno-associati (AAVs). Il lunedì produco la lesione nella corteccia cerebrale del topo, dopo due giorni inietto nel cervello i vettori AAVs che sovraesprimono i miei fattori neurogenici solo negli astrociti e poi vedo cosa succede a 10, 15 e 30 giorni di distanza. Controllo se gli astrociti diventano neuroni e, se lo fanno, quanto sono belli, quanto sono simili a quelli da rimpiazzare, l’elettrofisiologia e tutto il resto della caratterizzazione.

Come campo siamo in una fase molto giovane in cui dobbiamo dimostrare che quello che facciamo è vero e funziona, che non sono artefatti. Non è come per i trapianti di cellule nel cervello, una tecnica che si è iniziata a sviluppare quasi un secolo fa. Lì nessuno viene a dirti che non ci crede, perché è un campo molto più consolidato.

Come fate a sapere che i vettori che usate entrano solo negli astrociti e non nei neuroni?

In realtà i vettori che usiamo ora non entrano solo negli astrociti, ma in tutte le cellule del cervello del topo. I nostri topi però sono geneticamente modificati e l’AAV “funziona” solo negli astrociti. Per poterli usare come terapia in uomo ci servirebbe un vettore che fosse in grado di entrare solo negli astrociti, e questo non c’è ancora per gli AAVs.

Esistono già dei lentivirus e retrovirus ingegnerizzati con questa caratteristica, che se li inietti nel cervello infetteranno solo gli astrociti. Questi virus vengono istruiti per esprimere delle glicoproteine di membrana che gli danno la giusta specificità, come la proteina spike di SARS-CoV-2 che lo rende specifico per infettare le cellule epitelio polmonare. La glicoproteina in questione fornisce la specificità per gli astrociti e in realtà viene da un virus simile ai virus della rabbia chiamato Mokola Lissavirus, quindi questi vettori sono un po’ un collage.

A me però non piacciono perché sono dei virus abbastanza grossi che si “diffondono” con difficoltà nel cervello, che tendono ad integrarsi nel DNA della cellula ospite e ad attivare il sistema immunitario nel cervello. Gli AAVs invece sono più piccoli e diffondono maggiormente nel cervello senza attivare la risposta immunitaria. Inoltre, non sono capaci di entrare nel nucleo delle cellule ospiti e quindi non possono causare problemi al DNA.

Per questo i vettori adenovirali sono un grande figata, motivo per cui io sono tutt’ora un grande tifoso di AstraZeneca e degli altri vaccini ad AAVs.

Io invece sono sono team mRNA, ma solo perché prima di partire per l’Erasmus avevo fatto un esame con una presentazione esattamente sui liposomi che sono stati poi usati per produrre i vaccini di Pfizer e Moderna.

Io in questo momento, pur essendo un tifoso di AstraZeneca e co. mi farei qualsiasi vaccino, pure se me lo fa l’ALDI (ndr catena di supermercati tedeschi).
Qua è il braccio, butta dentro.

Perché hai scelto di fare il dottorato?

È una cosa che mi chiedo spesso.
Il dottorato è una piaga, parliamone, una gran piaga d’Egitto.

No, scherzo, però è tosta. È una cosa allo stesso tempo stra-divertente ma faticosa. È un lavoro ma allo stesso tempo è una passione, ed è veramente facile farti catturare dai ritmi del laboratorio. Vedendola come una passione, non hai orari e finisci per sacrificare la tua vita personale.

Il dottorato è una figata. Non lo consiglierei, ma è una figata.

Ti mandano un TSO se lo pubblico così.

Ma che TSO, mandate soldi, e cibo dall’Italia.

E a Monaco invece come ci sei finito?

Dopo la magistrale avevo fatto domanda in vari laboratori in giro per l’Europa perché volevo fare un dottorato fuori dall’Italia. In particolare ho conosciuto la mia capa per serendipità in quanto ho ascoltato per caso una sua presentazione ad un congresso che si teneva al San Raffaele, dove lavoravo. Gli astrociti e la medicina rigenerativa non sono mai stati il mio settore eh, io ho sempre lavorato sulla neurodegenerazione, quindi l’opposto. Poi però ho sentito un suo talk sull’argomento e mi sono innamorato del reprogramming, perché pensavo fosse una cosa futuristica.
Finita la conferenza le ho chiesto se cercasse un dottorando, e dopo vari giri di Skype call, presentazioni ai laboratori e colloqui, alla fine ho scelto il suo laboratorio.

Come mai hai detto che non volevi restare in Italia?

Per sfizio personale. Uno dei motivi per cui ho voluto iniziare la carriera della ricerca accademica è l’opportunità di girare il mondo. Essendo comunque una carriera a step uno ha molte opportunità di cambiare, sia argomento di studio che città, ed è una cosa che mi è sempre interessata. Come tanti studenti di Biotecnologie avevo l’idea di andare a fare ricerca all’estero e vedere come fosse il mondo fuori dall’Italia.

E quest’idea da dove veniva?

Non è che in Italia non mi fosse piaciuto, anzi mi era piaciuto molto farci ricerca, seppur con alti e bassi. Di Monaco però mi attraevano sicuramente le infrastrutture e una ricerca diversa da quella italiana. E poi per come sono fatto io volevo vedere un po’ il mondo prima di decidere dove fermarmi.

Per ora a me sta andando bene ed è assolutamente formativo, però se dovessi continuare non mi fermerei in Germania, esattamente per lo stesso motivo per cui ci sono venuto.

Hai notato se anche in Germania hanno il mito di andare all’estero?

Non lavoro con tanti tedeschi, però secondo me è un’idea abbastanza intrinseca della nostra carriera, quella della mobilità. La cosa che tu noti in Italia, e che mi è sempre dispiaciuta, è che molti la vivono come un’esigenza.

Non vuol dire che i tedeschi vogliano stare in Germania, ma qua i ricercatori hanno la voglia di andare fuori per curiosità: secondo me sanno che anche se rimangono a Monaco o in Germania in qualche modo gli va bene, mentre in molti che vanno via dall’Italia c’è una sfumatura di disperazione, oltre al “se vai a fare un dottorato all’estero è meglio”.

Io di questa cosa sono sempre stato un oppositore perché non è detto che sia necessariamente meglio, dipende molto dal laboratorio.

Ci sono dei miei amici che hanno il mito di andarsene all’estero, ma zio, se finisci in un laboratorio dove il capo ha 85 anni e usa sempre le stesse 4 tecniche perché non gli interessa più di fare innovazione ti conviene restare in Italia. Punta un buon laboratorio della tua facoltà, non c’è una lingua diversa, non c’è lo shock culturale. Alla fine dal dottorato vuoi portare a casa esperienze, pubblicazioni e crescita, e questo non dipende dalla nazione, ma dal laboratorio che scegli. I fondi poi sono un’altra cosa.

Certo, in Germania sono in media di più, e avendo girato un po’ di laboratori so cosa significa avere abbastanza soldi per fare ricerca non “di sopravvivenza”, ma seguendo la propria curiosità; qui non ti fai troppe pare se vuoi fare un esperimento un po’ più costoso.
Ecco, magari in Italia c’è il limite dei fondi limitati, mentre qui è un po’ più facile, ovviamente dopo che hai convinto il tuo capo, perché comunque i soldi non si buttano.

Ma i finanziamenti lì da dove vengono?  

C’è un fondo, una sorta di Ministero della Ricerca, che paga le cose di base come gli stipendi, ma poi ci sono molti bandi di ricerca come l’ERC, ovvero fondi europei. Di fatto se vedi le statistiche relative ai vincitori degli ERC gli italiani sono tra i più bravi a vincerli, ma poi non li spendono in Italia. Una volta che l’hai vinto scegli tu in che laboratorio spenderlo, e l’Italia come nazione è uno degli ultimi paesi dove vengono spesi questi finanziamenti.

Forse è anche una questione di infrastrutture come menzionavi prima, perché ok vincere il finanziamento, ma ci vuole anche un buon laboratorio dove spenderlo e farlo rendere.

Qui secondo me c’è proprio il nodo centrale, quello delle infrastrutture. Non per dire male dell’Italia, ma se devo paragonare l’ambiente accademico italiano con quello tedesco, in Italia mi sembra tutto complicato.

Abbiamo capito che sei un esploratore, ma perché hai scelto proprio questo argomento per il tuo dottorato?

Io ho scelto questo progetto di dottorato perché concettualmente ero interessato alla possibilità di poter manipolare l’identità delle cellule già differenziate. Questa per me è la cosa figa di fare il ricercatore: seguire la curiosità. Cos’è l’identità cellulare? È fissa? È plastica?

Poi posso magari applicare le mie scoperte come cura, ma in questo momento la cosa che mi piace è che sto lavorando su delle domande generali. La ricerca si fa per soddisfare la propria curiosità. Tranne i tesisti, loro fanno ricerca per rovinare la vita a noi dottorandi (ahahah).

Ecco, parlando di tesisti, quanto è comune in Germania che i tesisti vengano effettivamente citati negli articoli tratti dalle tesi?

La mia esperienza in Germania mi dice che qui ci sono molti meno problemi a riconoscere il lavoro svolto per un paper, indipendentemente dalla posizione che uno ha nella gerarchia del laboratorio.

In Italia il senso della gerarchia è molto forte, quando per come la penso io invece la cosa bella della scienza è che è democratica. Un’opinione è vera o è falsa indipendentemente da chi la dice, ma solo in base ai dati. Puoi avere un seminario di un premio Nobel per la Medicina e se uno studente gli fa una domanda, anche se è solo una matricola, lui gli deve rispondere. Non esiste “io non rispondo alla tua domanda perché sei solo un tesista, ma rispondo alla domanda del mio collega premio Nobel”. In Italia c’è molto, troppo, senso della gerarchia, e qui questa cosa non l’ho percepita come vera.

Ah, in Germania non è così?

Nel mio laboratorio ed in quelli che frequento normalmente no. O almeno, il mio capo prova a non trasmetterci la sensazione di essere dei sottoposti. In realtà anche in questo caso la questione non è universalmente Italia contro Germania, ma dipende sempre dai singoli laboratori.

C’è qualcosa che vorresti dire a un te del passato?

Uhm, globalmente sono contento di tutte le scelte che ho fatto. Una cosa che ho capito è che sarebbe comunque andata bene anche se avessi fatto scelte diverse.

Secondo me quando sei più giovane tendi a dare tanto peso a tutto, tipo andare a studiare a Milano piuttosto che rimanere a Catania, quando ora invece mi rendo conto che non è necessariamente così fondamentale. Me ne rendo conto perché sto in un laboratorio con altri 30 colleghi, e abbiamo tutti dei background completamente diversi.

Ecco magari direi al Matteo del passato di prenderla più rilassata, scialla va’. Ansiati di meno. Penso che sarebbe andata come doveva andare indipendentemente dalle mie scelte, sono contento delle mie scelte e non le cambierei, perché sono arrivato dove volevo arrivare.

Rispetto a quello che hai studiato e alle tue esperienze, c’è qualcosa che tu sai che ti stupisce che la gente non sappia?

Che domanda random. Più che altro il contrario, ad esempio con la sperimentazione animale. Quando la gente viene da te e ti deve dire che “beh comunque al giorno d’oggi la sperimentazione animale non serve”, lì io casco dal pero e mi viene solo da dire “no stella, dove l’hai sentita questa cosa?”.

Quello mi sembra veramente una grande ignoranza, a livello di disinformazione e mancanza di concetti fondamentali. Non mi stupisco che la gente non sappia cos’è un vettore adenovirale, perché magari è specifico, ma mi stupisco sempre del discorso “perché facciamo ricerca di base usando gli animali? Perché non stai studiando una malattia vera e lavori su un modello che non esiste nella vita reale?”

Ecco, appunto, quindi perché tu lavori su un modello e non sulla malattia?

Perché è importante procedere un passo per volta, e non è possibile andare direttamente sulla cosa più vicina all’uomo, perché è troppo complicata e non ti permetterebbe di sviluppare bene la terapia che vuoi sviluppare.
Sviluppare una terapia comporta molti tentativi ed errori, e tu devi essere sicuro di sapere qual è la causa degli errori. A me serve un modello pulito per capire cosa succede, in cui conosco tutto e so cosa potrebbe interferire con quello che sto facendo.

Certe volte devi dimostrare il principio, che la cosa che tu vuoi fare è possibile in generale. Nella nostra terapia noi studiamo in transdifferenziamento neuronale in un contesto di lesione semplice, ma lo step successivo, una volta in cui sapremo di poter riprogrammare gli astrociti in neuroni, sarà quello di vedere in che malattie ciò è applicabile.
La gente già lo fa col Parkinson e l’Alzheimer, io magari proverò con malattie in cui è coinvolta la degenerazione corticale.

Quando scriverò un paper il grosso sarà fatto su questo modello “finto” che sto usando ora e poi se vorrò dargli il tocco finale farò un modello-malattia per dire “guarda, tutto quello che ti ho raccontato per il modello col bisturi poi funziona anche per una malattia genetica”.

E cosa si ordina al bar dopo la giornata in laboratorio?

Manco so più cosa sia un bar, e l’Oktoberfest è stata cancellata per il secondo anno di seguito: è una situazione dura.
La risposta politicamente corretta a Monaco di Baviera è “una helles”, ma io dico “Negroni über alles”.


Riccardo Spanu, membro e fondatore di Biologi per la Scienza, laureato in Pharmaceutical Biotechnologies (UniPD).

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